Alle prime luci dell’alba di lunedì, in Birmania, è stata tratta in arresto Aung San Suu Kyi, storica eroina dei diritti civili e già premio Nobel per la pace. Dal 2016 “The Lady”, come veniva chiamato ai tempi della sua crociata dem, ricopre la carica di Segretario di Stato, un ruolo di primissimo piano, subordinato formalmente, al solo presidente Win Myint, suo strettissimo collaboratore anch’esso in arresto. Con un colpo di mano, prassi consolidata nella travagliata gestione della politica interna Birmana, le forze armate hanno “congelato” il risultato delle elezioni politiche dell’8 novembre scorso accusando di “gravi irregolarità” la commissione elettorale. L’emittente televisiva Myawaddy Television (MWD), controllata dagli stessi militari, ha dichiarato che i pieni poteri sono stati trasferiti nelle mani del comandante in campo delle forze armate, il gen. Min Aung Hlaing.
Birmania, la dichiarazione dello stato di emergenza
“Le liste elettorali che sono state utilizzate durante le elezioni generali multipartitiche che si sono tenute l’8 novembre hanno riscontrato enormi discrepanze e la Commissione elettorale dell’Unione non è riuscita a risolvere la questione. Sebbene la sovranità della nazione debba derivare dal popolo, durante le elezioni generali democratiche si è verificata una terribile frode nella lista degli elettori che è contraria a garantire una democrazia stabile […] della costituzione del 2008. Per eseguire il controllo delle liste elettorali e per intervenire, l’autorità del processo legislativo, del governo e della giurisdizione della nazione è affidata al Comandante in Capo ai sensi dell’articolo 418 della costituzione del 2008″.
Aung Sann Suu Kyi, una lady in ostaggio?
Alla guida del paese da cinque anni, la 75enne Suu Kyi e la National League for Democracy (NLD), l’avviato a breve il loro secondo mandato politico dopo la “svolta democratica” e le schiaccianti vittorie nelle ultime due elezioni, le prime libere da venticinque anni. La conquista di 368 seggi su 434, aveva chiaramente spaventato il Partito per la solidarietà e lo sviluppo dell’Unione (USDP), il principale partito di opposizione, stampella dei militari, che si era aggiudicato solo 24 seggi. Tuttavia la casta militare birmana si era ben guardata dall’allentare la presa sul paese “costituzionalmente” il controllo diretto di un quarto dei seggi nelle due camere e la gestione dei ministeri strategici.
Quello che era stato salutato dalla maggioranza degli analisti internazionali come un vero e proprio trionfo della democrazia aveva lasciato trasparire tutte le sue enormi contraddizioni sin dai primi mesi. La Aung Sann Suu Kyi appariva quasi “ostaggio” di una giunta militare 2.0 i cui membri, non la maggioranza, avevano dismesso la divisa gallonata per un elegante completo occidentale, ritenuto più possibile per presentarsi nel consesso internazionale ed attirare l’ingente massa degli speculatori globali in un paese ancora da molti considerato territorio vergine.
A subire paradossalmente i contraccolpi di questo matrimonio forzato era stata proprio l’eroina dem Suu Kyi che si era ritrovata nella scomoda posizione di parafulmine quando, ad esempio, le forze armate birmane avevano dato vita a quella che l’Onu aveva definito “un ‘ operazione di pulizia etnica da manuale ”contro la minoranza musulmana dei Rohingya, massacrati e scacciati nel vicino Bangladesh. Allora in molti notarono la totale distrazione della “Lady” riguardo alla vicenda e molti digerirono male le dichiarazioni di stima e gratitudine per i militari che la segretario di stato proferiva di tanto in tanto in occasioni dei suoi pubblici impegni.
Min Aung Hlaing, chi è l’uomo forte dell’esercito
A Rangun, ex capitale e città principale, le linee telefoniche e la connettività Internet sembrano essere limitate, molti fornitori hanno interrotto i loro servizi e alcuni video mostrano i soldati presidiare le strade ei luoghi di potenziali proteste popolari.
Intanto, sulla scena politica birmana, si staglia la figura di Min Aung Hlaing nuovo uomo forte e militare di lungo corso, Hlaing vanta un curriculum d’altissimo livello. Specializzatosi all’Accademia della difesa era salito alla ribalta quando nel 2009 aveva condotto le operazioni d’annientamento della rivolta dall’Esercito dell’Alleanza Democratica delle Nazionalità del Myanmar a Kokang sul confine cinese.
In quell’occasione l’UNHRC aveva i soldati di Min Aung Hlaing avevano deliberatamente preso di mira la popolazione civile e compiuto “discriminazioni sistemiche” e violazioni dei diritti umani contro le minoranze etniche. Accusa rinnovatagli in occasione della repressione contro il popolo Rohingya, che avevano prodotto, una fronte di una timidissima condanna internazionale, un ban dalla notoria piattaforma di profilazione social Facebook imitata poco dopo da Twitter. Due anni fa il generale era stato raggiunto anche da una limitazione statunitense in cui lo si ammoniva dal viaggiare nel territorio degli Stati Uniti
Sembra tuttavia che l’accerchiamento internazionale contro l’esuberanza autoritaria del generalissimo birmano non nuoccia granché alla sua economia domestica, arte che, assieme a quella militare, Hlaing sembra padroneggiare al meglio. Lui e la sua famiglia sono i maggiori azionisti della Myanmar Economic Holdings Limited (MEHL) di proprietà militare, che ha riconosciuto, nel solo anno fiscale 2010-11, dividendi per oltre 250.000 dollari. Il figlio, Aung Pyae Sone, possiede una serie di società private, tra cui la Sky One Construction Company e l’Aung Myint Mo Min Insurance Company. Ha una quota di utili in Mytel, compagnia di telecomunicazioni nazionale e nel 2013, si è aggiudicato una concessione governativa “blindata” per lo sfruttamento trentennale di un area allo Yangon People’s Park per il suo ristorante e una galleria d’arte.
La lunga scia della pulizia etnica in Birmania
All’alba di quella che appare come una restaurazione dell’ormai tradizionale assetto politico birmano, l’attenzione corre alle aree di conflitto che quasi ininterrottamente coprono i confini della nazione asiatica. Appena un giorno prima del golpe, il 31 gennaio, come ogni anno dall’inizio della rivoluzione, si era celebrato il 72 ° Karen Revolution Day. La giornata, in cui si ricordano i martiri della lotta di liberazione e sfilano i volontari delle forze di difesa territoriale, aveva visto uniti numerosi esponenti delle etnie minoritarie in lotta per l’autodeterminazione ed il riconoscimento dei loro diritti internazionali sanciti dalle Nazioni Unite all ‘ epoca dell’indipendenza della Birmania.
Nelle ultime settimane purtroppo, a dispetto della campagna elettorale unificatrice, nello Stato Karen, i mortai birmani avevano costretto centinaia di civili ad una disperata fuga nella giungla. La eco della svolta democratica era sin dall’inizio rimasta all’interno delle pareti anguste del mondo birmano, organizzato attorno a un’asse etnico religiosa che poco spazio lascia alle istanze delle altre componenti nazionali.
1 febbraio 2021 – Alberto Palladino
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